venerdì 25 gennaio 2013

Avevamo una banca - Marco Travaglio - 25/01/2013


Come in ogni scandalo, anche nel caso Montepaschi nessuno può dire “Io non c’entro” (tranne un paio di leader appena nati). Bankitalia si difende così: “Siamo stati ingannati”. Ma Bankitalia è lì proprio per evitare di essere ingannata, e soprattutto per evitare che siano ingannati i soci, i risparmiatori e i cittadini. L’alibi dell’inganno non vale: sarebbe come se un poliziotto si lasciasse scappare un ladro e si giustificasse col fatto che non s’è costituito. I ladri questo fanno: non si costituiscono. Perciò esistono i poliziotti: per prenderli. Sulla Consob è inutile sprecare parole: l’ex presidente Cardia aveva il figlio consulente di una banca da controllare, la Popolare di Lodi dell’ottimo Fiorani, infatti controllò pochino; e il presidente Vegas, ex sottosegretario e deputato Pdl, seguitò a votare per il governo B. anche dopo la nomina in Consob. Ora il Pdl cavalca lo scandalo della banca rossa, ma dovrebbe ricordare l’estate dei furbetti, quando stava con Fiorani e Fazio assieme alla Lega (rapita dal “banchiere padano” e soprattutto dal salvatore di Credieuronord); o il crac del Credito cooperativo fiorentino di Verdini; o l’uso della Bpm di Ponzellini come bancomat per amici degli amici. Casini, sul Monte dei Fiaschi, dovrebbe chiedere notizie al suocero Caltagirone, fino a un anno fa vice di Mussari. E Monti al suo candidato Alfredo Monaci, ex Cda della banca senese nell’èra Mussari. I vertici del Pd fanno i pesci in barile, ma sono anni che appena vedono un banchiere si sciolgono in adorazione. O diventano essi stessi banchieri, come Chiamparino al San Paolo. “Noi – dichiara quel buontempone di D’Alema – Mussari l’abbiamo cambiato un anno fa”. Frase che cozza con quella di Bersani: “Il Pd con le banche non c’entra”. Ma se ha “cambiato” Mussari, vuol dire che il Pd c’entra: anzi, l’aveva proprio messo lì. Casualmente negli ultimi 10 anni Mps ha versato 683 mila euro nelle casse del Pd senese. Un po’ come i Riva dell’Ilva, che foraggiavano la campagna elettorale di Bersani. La questione penale non c’entra, quella morale nemmeno. Semplicemente riesplode l’irrisolto problema del rapporto politica-affari: nessun grande partito può chiamarsi fuori. Tantomeno il Pd: si attendono ancora smentite alla deposizione di Antonio Fazio, che 6 anni fa raccontò ai pm milanesi di quando, nel 2004, Fassino e Bersani si presentano da lui in Bankitalia per raccomandargli la fusione tra Montepaschi e Bnl. Il progetto tramontò, ma quando l’anno seguente il Banco di Bilbao tentò di acquistare Bnl, l’Unipol d’intesa col vertice Ds organizzò una controcordata per sbarrargli la strada. Fassino a Consorte: “Allora, siamo padroni di una banca?”. D’Alema: “Evvai, Gianni!”. Intanto Bersani difendeva Consorte, Fazio e Fiorani già indagati: “Per Fazio andarsene ora sarebbe cedere a una confusa canea”, “Fiorani è un banchiere molto dinamico, sveglio, attivo, capace”. Soprattutto a derubare i suoi correntisti. Del resto Bersani aveva messo lo zampino anche in altre memorabili operazioni finanziarie. Tipo la scalata a debito dei “capitani coraggiosi” Colaninno & C. alla Telecom (1999). E l’affare milanese dell’autostrada Serravalle. Fu proprio Bersani a far incontrare il costruttore Gavio col fido Penati, presidente della Provincia. Intercettazione del 30.6.2004: “Bersani dice a Gavio che ha parlato con Penati… e di cercarlo per incontrarsi in modo riservato: ‘Quando vi vedrete, troverete un modo…’”. L’incontro aumma aumma avviene, poi la Provincia acquista le quote di Gavio nella Serravalle a prezzi folli e Gavio gira la plusvalenza alla cordata Unipol per Bnl. A che titolo Bersani si occupa da 15 anni di banche, autostrade e compagnie telefoniche non da arbitro, ma da giocatore? Finché i silenzi e i “non c’entro” sostituiranno le risposte, possibilmente convincenti, tutti saranno autorizzati a sospettare. Altro che “Italia giusta”.

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