Oggi i giornali traboccheranno di elogi per i giudici della IV sezione del Tribunale di Milano, che ieri hanno accolto
la richiesta dei legali di Silvio Berlusconi, on. avv. Ghedini e Longo,
di sospendere fino a dopo le elezioni il processo per rivelazione di
segreto d’ufficio a proposito del nastro rubato con la celebre
telefonata Fassino-Consorte (“Allora, siamo padroni di una banca?”) e
pubblicato sul Giornale di famiglia nel gennaio 2006. La decisione è in
controtendenza con quella opposta assunta tre giorni fa da altri tre
giudici della stessa IV sezione, che han respinto analoga richiesta nel
processo Ruby perché “il Tribunale non può operare valutazioni di
opportunità largamente intese come suggerito dalla difesa”, e si
accingono a emettere la sentenza prima delle elezioni. Dunque sono toghe
rosse. Intendiamoci: formalmente sono legittime entrambe le decisioni,
perché la legge non impone né esclude questi stop, rimettendosi alla
discrezionalità del giudice. Ma la motivazione letta dal presidente
Oscar Magi introduce un precedente pericoloso e un principio
sconcertante: “Si tratta di riconoscere esigenze legate all’esercizio di
un diritto costituzionalmente riconosciuto all’art. 51 della
Costituzione”. E che dice l’articolo 51 della Costituzione? “Tutti i
cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”, perciò
“la Repubblica promuove le pari opportunità tra donne e uomini…”. Non è
questo il nostro caso. L’ultimo comma aggiunge: “Chi è chiamato a
funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario
al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. E non si
capisce che c’entri con B., visto che non è più al governo, il
Parlamento è chiuso e la campagna elettorale non è l’esercizio di una
funzione pubblica elettiva, semmai un tentativo di tornare a
esercitarla. La sospensione del processo è paradossale perché mira a non
influenzare l’esito delle elezioni con una sentenza che potrebbe
danneggiare B. in caso di condanna o favorirlo in caso di assoluzione. I
paradossi sono tre. Primo: gli elettori hanno il diritto di sapere se
davvero, come sostiene l’accusa, l’allora premier B. ricevette in casa
sua, alla vigilia del Natale 2006, insieme al fratello Paolo, coloro che
avevano rubato il nastro Fassino-Consorte, privo di rilevanza penale ma
denso di rilevanza politico-morale, segretato e mai trascritto dai pm; e
lo ascoltò; e promise lauta ricompensa a chi l’aveva trafugato; il
tutto pochi giorni prima che il suo Giornale lo sbattesse in prima
pagina. Insomma, gli elettori devono sapere prima, non dopo le elezioni,
se il candidato B. è un delinquente o la vittima innocente di un errore
giudiziario. Secondo: il furto della bobina e il suo approdo, via
Arcore, sul Giornale influenzò pesantemente le elezioni 2006: prima che
uscisse l’intercettazione Fassino-Consorte, l’Unione di Prodi aveva 10
punti di vantaggio sul centrodestra di B. Dopo, anche a causa di quello
scandalo a sinistra (fondato su un fatto vero e grave, ma frutto di un
reato), oltreché dei soliti autogol del centrosinistra, il distacco si
ridusse progressivamente fino al quasi-pareggio al Senato che segnò le
sorti del secondo governo Prodi. Se ora un’eventuale condanna
danneggiasse B. alle elezioni sarebbe il giusto contrappasso per chi
sette anni fa recuperò punti preziosi contro i suoi avversari grazie a
un reato. Il terzo paradosso è che il Pdl ha appena votato insieme al Pd
e al Centro una legge che, per quanto blanda, si fonda sul principio
della incandidabilità dei condannati. Se però i giudici rinviano le
condanne a dopo le elezioni, i candidati saranno sempre incensurati e
diventeranno ineleggibili solo dopo che sono stati eletti. Forse, oltre
ai codici e alle pandette, i giudici dovrebbero studiare un po’ di
logica.
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venerdì 18 gennaio 2013
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