venerdì 18 gennaio 2013

Toghe Azzurre? - Marco Travaglio - Il F.Q. 18/01/2013

Oggi i giornali traboccheranno di elogi per i giudici della IV sezione del Tribunale di Milano, che ieri hanno accolto la richiesta dei legali di Silvio Berlusconi, on. avv. Ghedini e Longo, di sospendere fino a dopo le elezioni il processo per rivelazione di segreto d’ufficio a proposito del nastro rubato con la celebre telefonata Fassino-Consorte (“Allora, siamo padroni di una banca?”) e pubblicato sul Giornale di famiglia nel gennaio 2006. La decisione è in controtendenza con quella opposta assunta tre giorni fa da altri tre giudici della stessa IV sezione, che han respinto analoga richiesta nel processo Ruby perché “il Tribunale non può operare valutazioni di opportunità largamente intese come suggerito dalla difesa”, e si accingono a emettere la sentenza prima delle elezioni. Dunque sono toghe rosse. Intendiamoci: formalmente sono legittime entrambe le decisioni, perché la legge non impone né esclude questi stop, rimettendosi alla discrezionalità del giudice. Ma la motivazione letta dal presidente Oscar Magi introduce un precedente pericoloso e un principio sconcertante: “Si tratta di riconoscere esigenze legate all’esercizio di un diritto costituzionalmente riconosciuto all’art. 51 della Costituzione”. E che dice l’articolo 51 della Costituzione? “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”, perciò “la Repubblica promuove le pari opportunità tra donne e uomini…”. Non è questo il nostro caso. L’ultimo comma aggiunge: “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. E non si capisce che c’entri con B., visto che non è più al governo, il Parlamento è chiuso e la campagna elettorale non è l’esercizio di una funzione pubblica elettiva, semmai un tentativo di tornare a esercitarla. La sospensione del processo è paradossale perché mira a non influenzare l’esito delle elezioni con una sentenza che potrebbe danneggiare B. in caso di condanna o favorirlo in caso di assoluzione. I paradossi sono tre. Primo: gli elettori hanno il diritto di sapere se davvero, come sostiene l’accusa, l’allora premier B. ricevette in casa sua, alla vigilia del Natale 2006, insieme al fratello Paolo, coloro che avevano rubato il nastro Fassino-Consorte, privo di rilevanza penale ma denso di rilevanza politico-morale, segretato e mai trascritto dai pm; e lo ascoltò; e promise lauta ricompensa a chi l’aveva trafugato; il tutto pochi giorni prima che il suo Giornale lo sbattesse in prima pagina. Insomma, gli elettori devono sapere prima, non dopo le elezioni, se il candidato B. è un delinquente o la vittima innocente di un errore giudiziario. Secondo: il furto della bobina e il suo approdo, via Arcore, sul Giornale influenzò pesantemente le elezioni 2006: prima che uscisse l’intercettazione Fassino-Consorte, l’Unione di Prodi aveva 10 punti di vantaggio sul centrodestra di B. Dopo, anche a causa di quello scandalo a sinistra (fondato su un fatto vero e grave, ma frutto di un reato), oltreché dei soliti autogol del centrosinistra, il distacco si ridusse progressivamente fino al quasi-pareggio al Senato che segnò le sorti del secondo governo Prodi. Se ora un’eventuale condanna danneggiasse B. alle elezioni sarebbe il giusto contrappasso per chi sette anni fa recuperò punti preziosi contro i suoi avversari grazie a un reato. Il terzo paradosso è che il Pdl ha appena votato insieme al Pd e al Centro una legge che, per quanto blanda, si fonda sul principio della incandidabilità dei condannati. Se però i giudici rinviano le condanne a dopo le elezioni, i candidati saranno sempre incensurati e diventeranno ineleggibili solo dopo che sono stati eletti. Forse, oltre ai codici e alle pandette, i giudici dovrebbero studiare un po’ di logica.

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