In questi tempi bizzarri accadono cose davvero strane. Càpita persino di ricevere lezioni
di giornalismo e deontologia da Pasquale Cascella, giornalista di cui
sfuggono i pensieri e le opere, ma non le parole e le omissioni.
Giornalista dell’Unità a targhe alterne, Cascella fu portavoce di
Napolitano presidente della Camera, poi di D’Alema premier (quando
Palazzo Chigi divenne – Guido Rossi dixit – “l’unica merchant bank dove
non si parla inglese”), poi di Violante capogruppo Ds alla Camera, poi
di nuovo di Napolitano presidente della Repubblica. Dunque è Cavaliere
di Gran Croce, Gran-d’Ufficiale e Cavaliere dell’Ordine al merito della
Repubblica, e ora candidato del Pd a sindaco della natìa Barletta. Ieri
il Port. Cand. Cav. Gr. Cr. Grand’Uff. ha rilasciato un’intervista al
prestigioso programma radiofonico La Zanzara: “La vicenda D’Ambrosio?
Bisogna chiedere a Travaglio se non ha problemi di coscienza, per il
modo in cui ha fatto informazione, non credo sia un modo di fare
giornalismo. È stato un attacco mirato alla persona, a Napolitano. Mi
chiedo come alcuni facciano informazione sul Fatto, come facciano a
convivere con la propria coscienza e deontologia professionale, che nel
caso D’Ambrosio è stata violata”. Questo monumento dell’informazione
libera e indipendente si riferisce al magistrato Loris D’Ambrosio, come
consigliere giuridico di Napolitano, sorpreso l’anno scorso dalle
intercettazioni disposte dai giudici di Palermo sui telefoni di Nicola
Mancino ad attivarsi, su richiesta dell’ex ministro indagato per falsa
testimonianza, per deviare le indagini sulla trattativa Stato-mafia con
pressioni sul procuratore antimafia Grasso e sui Pg della Cassazione
Esposito e Ciani. Il Fatto, come tutti i quotidiani, pubblicò le
telefonate, depositate e non più segrete. Criticò, come pochi
quotidiani, le intromissioni del Quirinale in un’indagine in corso. E,
come nessun quotidiano, diede la parola a D’Ambrosio con un’ampia
intervista. D’Ambrosio disse di non poter rispondere sul ruolo di
Napolitano mandante delle sue mosse (come emergeva dalle sue parole
intercettate), perché era tenuto a un presunto “segreto” e a
un’imprecisata “immunità” presidenziale. Ma s’impegnò a farlo se il capo
dello Stato l’avesse svincolato. Il che purtroppo non avvenne: al posto
suo intervenne Cascella per opporre il silenzio stampa. Il Fatto inviò
le domande direttamente a Napolitano. Il quale rispose, con un dispaccio
recapitatoci da un messo in motocicletta, che non intendeva rispondere.
Però fece poi sapere che D’Ambrosio gli aveva offerto le dimissioni e
lui le aveva respinte confermandogli “affetto e stima intangibili”.
Anche quella fu una risposta ai nostri interrogativi, incentrati su una
questione cruciale: quando D’Ambrosio svelava a Mancino di aver parlato a
Grasso, Esposito e Ciani in nome e per conto del “Presidente” che “ha
preso a cuore la questione” e “sa tutto”, millantava credito o diceva la
verità? Il fatto che Napolitano gli confermasse fiducia significa che
D’Ambrosio non millantava: obbediva agli ordini. Dunque tutto ciò che ha
fatto, conseguenze comprese, è responsabilità di Napolitano (e
Mancino). Forse tutto sarebbe ancor più chiaro se il Colle avesse
divulgato il contenuto delle quattro telefonate
Napolitano-Mancino,
anziché scatenare la guerra termonucleare ai pm di Palermo per farle
distruggere, a maggior gloria dell’inciucio. Non contento, quando
D’Ambrosio morì d’infarto, Napolitano tentò di scaricare la colpa su chi
l’aveva criticato. Ora il Port. Cand. Cav. Gr. Cr. Grand’Uff. Cascella
ci riprova. Ma sbaglia indirizzo. Noi siamo a posto con la nostra
coscienza, avendo esercitato il dovere di cronaca, il diritto di critica
e di replica. Chissà se può dire altrettanto chi usò D’Ambrosio come
scudo umano e parafulmine. Ma in Italia, oltre al principio di
responsabilità, è stata abolita anche la vergogna.
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venerdì 3 maggio 2013
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