Allora un Presidente della Repubblica lo abbiamo avuto...”. L’applauso a scena aperta scoppia improvviso. Isabella Ferrari ha appena finito di leggere un passo in cui Sandro Pertini spiega qual è il rischio più grande per un uomo politico (“Innamorarsi del potere”), ma anche in che modo si può scampare, a quel rischio: “Basta avere sempre le valigie pronte”. Sono le 23, È stato la mafia di e con Marco Travaglio, che lunedì sera ha debuttato all’Europauditorium di Bologna, va avanti da più di due ore. La lettura di Pertini, e l’applauso liberatorio, fanno da introduzione all’ultima parte della maratona dedicata alla storia della trattativa Stato-mafia, “Romanzo Quirinale”. Quella in cui sono tuttora coinvolte le maggiori cariche dello Stato, come i lettori del Fatto Quotidiano sanno bene. Fermiamoci per un attimo qui, sulla soglia del Colle, e riavvolgiamo il nastro di questa terza apnea teatrale di Travaglio, simile per molti versi alle precedenti, Promemoria e Anestesia totale, e per altri dissimile. Simile perché il teatro si conferma il luogo in cui disseppellire i fotogrammi della memoria collettiva, quelli che il bidone aspiratutto dei media si premura di spazzare quotidianamente via, restituendo al teatro stesso il suo ruolo di coscienza e partecipazione civile, ossia le sue stesse radici. D I V E R S O, perché stavolta il film è denso, intricato, complesso; richiede più
precisione e meno gigioneria. Accomodato in poltrona, freddo, tranquillo e inesorabile, Travaglio sa che il racconto sarà lungo, perché quella che molti si ostinano a definire “la presunta trattativa” è la vicenda meno presunta della nostra storia recente, “e di presunto, in questa storia, c’è solo lo Stato”. I fatti sono tanti, inchiodati agli atti e alle sentenze, e infiniti sono i nomi, le date, i luoghi, i pentiti i militari, i servizi, i faccendieri, i boss, i pentiti, i dissociati e ovviamente i politici di ogni grado (“Sempre più in alto!”,
come diceva Mike Bongiorno). La storia del “peccato originale della nostra Repubblica”, come la definì Salvatore Borsellino, comincia negli anni Ottanta, con i contatti tra i Ros e don Vito Ciancimino, e da allora non si ferma più; prosegue con il governo di centrosinistra presieduto da Ciampi, fa il salto di qualità quando, con la nascita di Forza Italia, Spatuzza si rallegra con i fratelli Graviano “perché finalmente si tratta con persone serie”; e guarda caso negli anni a venire la stagione delle stragi si concluderà di pari passo con l’ammorbidimento del 41-bis, la fine del carcere duro e la possibilità per i mafiosi di dissociarsi a costo zero. Piero Grasso dirà: “Se fossi al posto di un mafioso, non mi pentirei”; “infatti – chiosa Travaglio – da quel momento non si pente più nessuno, a parte quelli che si erano già pentiti, che si pentono di essersi pentiti”. Un nodo dopo l’altro, il vicedirettore del Fatto annoda pazientemente la fitta trama del suo tappeto; e alla fine il disegno è tanto più chiaro quanto la trama è invisibile; il disegno di un Paese dove tutto è trattabile e nulla certo, dove i confini sono mobili quanto le regole relative, dove non si sa dove finisca lo Stato e dove cominci la mafia. A spezzare il ritmo e a fare da contrappunto arrivano le intense musiche dal vivo di Valentino Corvino e le letture di Isabella Ferrari, chiamata a illuminare le altre facce della luna, quelle più colte, visionarie, profetiche. L’Italia perbene di Pertini, il Palazzo miserando di Pasolini, l’inseparabile pulsione al Fascismo secondo Flaiano, la democrazia solo a parole di Gaber. E il brano straordinario in cui Piero Calamandrei, dopo avere ammesso che “la politica è noiosa”, spiega ai giovani perché la libertà sia come l’aria, ci si accorge di quanto è necessaria solo quando manca. Schegge scintillanti di una Ferrari tanto duttile quanto Travaglio è martellante, che attraversano la grande zona grigia di È Stato la mafia. RISPETTO ai precedenti monologhi si sente, dal punto di vista comico, la mancanza di Berlusconi, l’uomo che sa trasformare in barzelletta tutto ciò che governa; e ancor più si sente la mancanza dei berluscones, i Minzolini, i Capezzone, i Fede e i Sallusti, impagabili macchiette che avrebbero fatto la gioia di Molière. Si sente la loro mancanza fino alle soglie del “Romanzo quirinale” di cui si diceva; a questo punto, dopo averci chiarito che la trattativa esiste, e che è
proprio perché esiste che la si deve negare, Travaglio si concentra su omissioni e rimozioni. Chi trattò deve essere coperto, anche perché, se così non fosse, rischia di trascinare tutti nella palta. E POI; ESISTE qualcosa di più italiano del troncare e del sopire, specie se si tratta di correre in soccorso del potere? Dopo Molière, c’è da fare verdi di invidia Ionesco e Tardieu: la Corte costituzionale stabilisce che “non spetta alla Procura di Palermo di omettere l'immediata distruzione delle intercettazioni”; il professor Galli della Loggia si chiede chi di noi, nei panni di Mancino, non proverebbe la stessa apprensione che lo ha spinto a telefonare a Napolitano (tutti noi infatti, abbiamo trattato con Provenzano); il corazziere Scalfari, a proposito di intercettazioni, immagina un omino nascosto dentro il telefono, pronto a tagliare la comunicazione appena viene riconosciuta l’inconfondibile, intangibile The Voice. E quando il senatore Pellegrino, dopo lunghe riflessioni, conclude “Non ci fu una trattativa dello Stato, ma un arretramento tattico”, viene da pensare che anche i pd sanno ridere. Arretramento tattico? Come diceva Altan, se avanzo,
tenetemi per domani.
Nessun commento:
Posta un commento