sabato 9 febbraio 2013

La Repubblica di Falò - Marco Travaglio - F.Q. 09/02/2013

Il gip Riccardo Ricciardi che ieri ha ordinato la distruzione tombale delle quattro intercettazioni fra Napolitano e Mancino (due volte Mancino chiamò Napolitano, due volte Napolitano chiamò Mancino) va capito. La sua decisione è una ferita letale ai principi costituzionali del diritto di difesa (art. 24) e del giusto processo tramite il contraddittorio fra le parti (art. 111), visto che contestualmente ha dovuto respingere l’istanza dei legali di Ciancimino jr. di poter ascoltare i quattro nastri nell’interesse del loro cliente, imputato per minaccia a corpo dello Stato. E ha dovuto scrivere nero su bianco che, al solo scopo di placare il terrore
di Napolitano per “il rischio concreto di divulgazione all’esterno dei contenuti delle conversazioni”, i difensori devono fidarsi di lui, che le ha ascoltate e assicura che non riguardano “interessi afferenti principi costituzionali supremi (tutela della vita e della libertà personale, salvaguardia dell’integrità costituzionale delle Istituzioni della Repubblica) che
possano essere in qualche modo irrimediabilmente pregiudicati dalla distruzione delle  registrazioni”. In verità gli avvocati cercavano solo elementi utili per difendere il loro assistito, ma dovranno rassegnarsi:
facciano pure ricorso in Cassazione, tanto  – se e quando lo vinceranno – i nastri non esisteranno più e al massimo potranno farseli  raccontare dal gip. Ma perché va capito, il gip costretto a prendere una decisione così  assurda e a spiegarla con argomenti così bizzarri? Perché è vero che la Consulta non gli aveva imposto nulla (il conflitto di attribuzione del Quirinale era contro i pm, non contro il gip). Ma se avesse osato conservare quei files e sollevare una questione di incostituzionalità sulle procedure incostituzionali dettate dalla Corte costituzionale, sarebbe finito nel tritacarne come i pm: attaccato dal Presidente e dai suoi corifei, maciullato dai giornali-corazzieri, insultato dai garantisti a targhe alterne, dipinto come un eversore e chissà cos’altro. Un massacro che non si augura nemmeno a Riina, figurarsi a un giudice onesto. Lunedì i files originali conservati nel server della Procura in una saletta dell’Ucciardone e i cd con le copie allegati alla richiesta della Procura verranno cancellati da un perito informatico. Il bello è che il server è gestito dalla società Rcs, la stessa che a Milano aveva garantito così bene la segretezza della telefonata Consorte-Fassino che un dipendente la rubò e la passò alla banda B. che la pubblicò sul Giornale. Non resta che sperare che stavolta qualcuno non se ne sia fatta una copia, da usare al momento opportuno per ricattare o screditare il Presidente. Ma, anche se così non fosse, resterebbero in vita una decina di persone che conoscono le telefonate, avendole ascoltate, e possono raccontarle a chi pare a loro come pare a loro senza che nessuno possa più smentirli con la versione integrale: pm, gip, cancellieri, personale di segreteria e di polizia giudiziaria, tecnici della società privata. Senza dimenticare Mancino, che non è neppure tenuto al segreto d’ufficio, essendo un privato cittadino, per giunta imputato. Nessuno meglio di lui, a parte Napolitano, conosce il contenuto delle telefonate. Insomma da oggi il Presidente è potenzialmente ancor più ricattabile di prima, essendosi rifiutato di sottrarsi a questa situazione pericolosa e imbarazzante nell’unica forma possibile: rivelando quel che disse a Mancino, come il
Fatto gli aveva invano suggerito. Però, dopo il falò delle impunità, si potrà ovviare anche a questo piccolo inconveniente. Basterà riunire tutti coloro che le hanno ascoltate, compresi gli amici e i parenti fino al terzo grado a cui potrebbero averle raccontate, e incaprettarli con un sasso in bocca, o murarli vivi in un pilone di cemento armato, o scioglierli nell’acido. Una bella strage che, fra l’altro, sarebbe di buon auspicio in vista del condono tombale.

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