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martedì 12 febbraio 2013
L'antiitaliano - Marco Travaglio - Il F.Q. 12/02/13
Se non fosse irriguardoso, si potrebbe dire che Joseph Ratzinger è come Michel Platini: meglio ritirarsi ancora al cento per cento delle forze fisiche e mentali, che declinare e degradarsi sotto gli occhi del mondo, riducendosi progressivamente a larva umana o vegetale. Specialmente se si è assistito alle lunghissime agonie di due grandi predecessori come Paolo XVI e Giovanni Paolo II (papa Luciani fu una meteora), che negli ultimi tristi anni finirono nelle mani e nelle fauci di una Curia popolata anche di sciacalli e faine. È incredibile la forza dirompente ed eversiva, dunque storica, sprigionata dalla scena fuori dal tempo e dallo spazio del Concistoro di ieri, con il vecchio Pontefice che esala cantilenando poche frasi in latino. Una forza che, proprio nel passo d’addio, spazza via tutti gli schemi del Papa conservatore, incolore, insapore, freddo e distaccato. Il coraggio dell’“incapacitatem meam agnoscere” e dell’ammettere le forze che mancano per l’“ingravescente aetate...”. L’umilissimo “veniam peto pro omnibus defectibus meis”. Il confessare la propria finitezza, forse il proprio fallimento, in un mondo che obbliga a essere o a fingersi sempre giovani e in gran forma. Lo staccarsi dal trono e dal proscenio, contrapponendo il servizio e la missione (“patiendo et
orando”) a un mondo che fa del potere e dell’apparire gli unici valori. Ci sarà tempo per scandagliare gli altri motivi, più prosaici e mondani, che l’han portato a questa scelta in aggiunta a quelli di salute. Intendiamoci. Le contraddizioni della Chiesa e gli errori, le compromissioni, gli scandali del Vaticano sono tutti ancora lì.
Ma che pena le lodi bigotte dei politicanti italioti, decrepiti per età anagrafica e/o politica, abbarbicati alle poltrone finché morte non li separi, che esaltano il gesto “nobile. Omuncoli che dovrebbero astenersi dal pronunciare il nome di questo gigante della fede e della cultura, che nulla ha mai avuto a che fare (diversamente da tanti cardinali italiani) con la politica, tantomeno con quella nostrana. Altri, più titolati, giudicheranno il pontificato di Benedetto XVI e forse vi scopriranno profili di innovazione (come le aperture a separati e divorziati) che i luoghi comuni della botteguccia domestica ha impedito di riconoscere. Ma sull’uomo Ratzinger qualcosa già si può dire. Nonostante gli anni trascorsi in Italia, più precisamente a Roma, più precisamente in Curia, Ratzinger non è mai diventato italiano, romano, curiale. È sempre rimasto tedesco. Me ne resi conto il 1° settembre 1990, quando Montanelli mi mandò a Rimini a seguire il Meeting di Cielle. L’allora cardinale prefetto del Sant’Uffizio tenne una prolusione, poi si sottopose a una conferenza stampa. L’ingenuità dei miei 26 anni mi suggerì una domanda impertinente che i ras ciellini intorno a lui fulminarono con smorfie di disgusto: “Non crede, eminenza, che dopo la caduta del Muro di Berlino sia ora di finirla con l’unità politica dei cattolici nella Dc?”. Lui invece sorrise e rispose: “La Chiesa non deve identificarsi mai con un partito determinato, ma deve essere aperta a diverse opzioni politiche e porsi a difesa della coscienza morale. Un partito cristiano ha una responsabilità particolare e ci interessa per la formazione di un consenso umano e cristiano nella società che si paganizza”. Aggiunse di preferire una Chiesa di popolo alle “strutture ecclesiastiche più giuridiche che vitali, che in Germania esistono solo perché ci sono i soldi per crearle. Quanti più apparati noi costruiamo, tanto meno c’è spazio per lo spirito, per il Signore, e tanto meno c’è libertà”. L’indomani si scatenò un mezzo putiferio, con i giornali che annunciavano la fine dell’unità dei cattolici in un solo partito. Oggi in Vaticano, 23 anni dopo, c’è qualcuno che non l’ha ancora capito.
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