L’altroieri il ministro degli Esteri britannico ha ordinato al Coroner che
indaga sull’assassinio di Aleksandr Litvinenko, l’ex agente Kgb
avvelenato a Londra 7 anni fa con un tè al polonio, di insabbiare
l’inchiesta che puntava ai servizi segreti russi e di coprire col
segreto di Stato il ruolo di quelli britannici. Il gentile omaggio al
regime di Mosca segue di pochi giorni il vertice Cameron-Putin. E tanti
saluti alla famiglia Litvinenko, che non avrà mai giustizia per non
disturbare la politica e gli affari. In Italia questo – grazie alla
Costituzione che tutela l’indipendenza della magistratura “da ogni altro
potere” e l’azione penale obbligatoria – non può accadere. Almeno sulla
carta. Ma sempre più spesso si tenta di farne una prassi: con leggi
incostituzionali, attacchi e processi disciplinari ai magistrati che
doverosamente ignorano la (presunta) “ragion di Stato”, e sempre più
frequenti “moniti” del presidente della Repubblica, autoproclamatosi
capo della magistratura grazie alla complicità dei politici col culo
sporco e dei giuristi di corte. Ora Napolitano è stato citato come teste
dai pm di Palermo per spiegare cosa voleva Mancino quando tempestava di
telefonate il Colle chiedendo interventi indebiti (in parte ottenuti)
sulle indagini sulla trattativa; e cosa intendeva dire il suo
consigliere D’Ambrosio un anno fa, quando gli ricordò per iscritto di
aver confidato a lui (“lei sa”) e “anche ad altri” le “ipotesi” e i
“timori” di essere stato usato come “ingenuo e utile scriba di cose
utili a fingere da scudo per indicibili accordi”. Siccome D’Ambrosio è
morto, la cosa più naturale è che Napolitano riferisca tutto ciò che sa
al processo che si apre il 27 maggio per far luce sulla trattativa
Stato-mafia, costata la vita a Borsellino, cinque uomini di scorta e
dieci cittadini di Firenze e Milano. Ma ecco subito trapelare sulla
stampa corazziera le solite esalazioni quirinalesche senza testo né
firma, che esprimono “sorpresa” (Repubblica ) e “stupore” per le “ferite
riaperte” (il Corriere, che aggiunge un irresistibile tocco di
surrealismo, deplorando un fantomatico “insopportabile e quasi ossessivo
fronte politico- mediatico schierato contro il Colle”). Si ripete il
copione già visto dopo le intercettazioni Mancino-D’Ambrosio-Napolitano,
col bombardamento mediatico e istituzionale (conflitto alla Consulta)
contro la Procura di Palermo. Allora si raccontava la frottola del
Presidente che non può essere indagato né intercettato (infatti non lo
era) in base a fantomatiche “prerogative”. Ora si favoleggia di un suo
presunto diritto a non testimoniare, negando addirittura il dovere dei
pm di citarlo. Il favolista più zelante è l’ormai irriconoscibile
Michele Ainis, che sul Corriere si esercita in una memorabile
arrampicata sulle specchiere del Quirinale. A suo dire, il processo per
accertare la verità sulla trattativa è una guerra e citare 176 testi
equivale a “sparare 176 colpi di pistola, ma anche di cannone”, perché
nella lista ci sono diversi papaveri: Napolitano, Ciampi, Grasso e il Pg
della Cassazione, Ciani. Il che sarebbe “una rivalsa se non proprio una
vendetta” dei pm contro il Colle. Parrebbe “il trionfo del principio di
eguaglianza” (sancito dalla Costituzione), invece è “la mortificazione
del principio di ragionevolezza” (ignoto alla Costituzione, ma anche
alla ragionevolezza stessa: se si processa la trattativa Stato-mafia, è
ragionevole che fra gli imputati e i testi siedano anche uomini dello
Stato, tantopiù se ancora un anno fa si scambiavano strani messaggi sul
tema). La “ragionevolezza” alla Ainis ricorda tanto il modello inglese:
il governo ordina agl’inquirenti di non disturbare il manovratore e
quelli eseguono. Ainis sa bene che il codice prevede espressamente “la
testimonianza del presidente della Repubblica” (art. 205 Cpp),
fissandone il luogo (il Quirinale). Dunque il Presidente, come ogni
cittadino, ha l’obbligo di rispondere e dire la verità, altrimenti è
reticenza o falsa testimonianza. Ma subito – strologando da sé o
leggendo nel pensiero dell’amato Colle – Ainis si domanda che accadrebbe
“se Napolitano rifiutasse di testimoniare”. E si risponde che può
farlo, e senza commettere reati. Quest’esenzione da un dovere primario
non è scritta da nessuna parte, ma lui la deduce così: siccome il
Presidente dev’essere sentito nel suo ufficio, se non apre la porta i
giudici non possono costringerlo con l’accompagnamento coattivo.
Insomma, il suo dovere di deporre sarebbe “volontario” e “non
obbligatorio”. È l’ennesima perla di diritto creativo, anzi dadaista,
che fa il paio con quella (poi avallata dalla Consulta) del Presidente
inascoltabile anche se parla con un indagato intercettato. E trascura
l’aspetto morale, ancor più grave di quello giuridico, di un capo di
Stato che rifiuta di fare chiarezza sugli “accordi indicibili” con la
mafia confidatigli dal suo consigliere. Senza contare il principio di
“leale collaborazione fra poteri dello Stato” sempre monitato quando fa
comodo. Ainis comunque invita la Corte a cancellare Napolitano dalla
lista testi dei pm per evitare l’“ennesimo tamponamento tra politica e
giustizia” e “agevolare il traffico”. Ma forse voleva dire i traffici.
Secondo Ainis, poi, “non era mai successo che un presidente della
Repubblica fosse convocato”. Falso: Napolitano è stato ammesso come
teste al processo Borsellino in corso a Caltanissetta. E nessuno ha
obiettato nulla. Si spera che Napolitano si guardi dagli amici come
Ainis (peraltro in buona compagnia dei giureconsulti Nitto Palma,
Gasparri, Brunetta, Santanchè, Napoli, Gelmini, Cicchitto). Se davvero
rifiuterà di testimoniare, si caccerà in guai ancora peggiori: la gente
penserà che non solo ha tentato di salvare da un’inchiesta l’amico
Mancino; ma ha pure qualcosa di grave da nascondere sulla trattativa ai
tempi delle stragi. Già, perché – con buona pace di Ainis che invita i
giudici a “mettersi l’animo in pace” – ci sono decine di famiglie in
lutto e milioni di italiani che non avranno pace finché non otterranno
verità e giustizia.
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domenica 19 maggio 2013
Il Reticente della Repubblica - Marco Travaglio - Il F.Q. 19/05/2013.
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