Dunque, al processo di Norimberga che si apre a Palermo il 27 maggio contro i traditori
dello Stato che vent’anni fa trattavano con Cosa Nostra mentre questa
sterminava magistrati, agenti di scorta e cittadini comuni, siederà sul
banco dei testimoni anche Giorgio Napolitano. La notizia della sua
citazione nella lista testi della Procura di Palermo susciterà le solite
polemiche, vista la pretesa di intoccabilità che ha trasformato –
complici giuristi di corte e sentenze di Corte – il Presidente della
Repubblica in un monarca assoluto, peraltro ignoto alla Costituzione.
Ma, per quanti sforzi facciano i corazzieri della penna e dell’ugola,
difficilmente troveranno obiezioni al suo dovere di dire la verità in un
processo e al diritto di una Procura di citarlo (è già teste a
Caltanissetta al processo Borsellino). Le intercettazioni fra lui e
Mancino, distrutte per ordine della Consulta proprio nel giorno del suo
reinsediamento, non c’entrano nulla. C’entrano quelle, regolarmente
depositate agli atti del processo, fra il suo consigliere giuridico
Loris D’Ambrosio e lo stesso Mancino, che premeva sul Quirinale per
allontanare da sé e da Palermo l’amaro calice delle indagini; e ne
otteneva udienza e soddisfazione. D’Ambrosio è morto e non potrà
parlare. Ma Napolitano sì: dopo aver assicurato di non aver nulla da
nascondere né da temere, anzi di pretendere tutta la verità, potrà
finalmente spiegare il tramestio telefonico ed epistolare tra un
indagato e la massima carica dello Stato. E potrà anche chiarire un
altro mistero, raccontato dal Fatto nell’ottobre scorso, in beata
solitudine. Nella lettera di dimissioni (poi respinte) che D’Ambrosio
gli aveva inviato il 18 giugno 2012 dopo le polemiche sulle sue
telefonate con Mancino, il consigliere ricordava la sua lunga
collaborazione con Falcone e aggiungeva: “Lei sa di ciò che ho scritto
anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che in quelle poche
pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che
mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare
ipotesi – solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri – quasi preso
anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo
e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi.
Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di
protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di
tornare anche a fare indagini, come oltre 30 anni fa”. Purtroppo, nel
libro Giovanni Falcone un eroe solo, dei misteriosi “episodi 1989-’93”
che l’avevano “preoccupato” e “fatto riflettere”, D’Ambrosio dice poco o
nulla. Ma, nella lettera al Presidente, scrive che le sue “ipotesi”
Napolitano le conosce (“lei sa”), e non solo lui (“ho detto anche ad
altri”). Ipotesi legate alla trattativa Stato-mafia, al punto di indurlo
a sospettare di essere stato usato come “ingenuo e utile scriba di cose
utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Perciò rivolgemmo a
Napolitano alcune domande. 1) Da chi D’Ambrosio temeva di essere stato
usato come “scriba”? Non certo da Falcone, dunque dai politici sopra di
lui in quel periodo, al governo (premier Andreotti) e in Parlamento
(presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini). Ma anche dopo
(“protagonisti e comprimari” sentiti in Antimafia). 2) Chi fra quei
politici, lo usò come “scudo per indicibili accordi”? 3) A quali “altri”
il consigliere confidò i suoi sospetti? 4) E perché, quando fu sentito
due volte come teste dai pm di Palermo, non li mise al corrente e anzi
negò di sapere qualcosa, se davvero voleva persino “tornare a indagare”?
5) Quando D’Ambrosio gli espose le sue ipotesi e gliele mise per
iscritto, Napolitano gli chiese spiegazioni, dettagli, nomi e cognomi?
6) Se lo fece, perché non informò la Procura? Se non lo fece, fu perché
non gliene importava niente, o per altri motivi? E quali? A noi il
Presidente non ha mai risposto. Ora dovrà rispondere ai giudici.
Giurando di dire tutta la verità, nient’altro che la verità.
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sabato 18 maggio 2013
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